Il divieto contenuto nell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) rappresenta uno dei valori cardine delle società democratiche. La dignità umana è il principale oggetto di tutela e la sua lesione configura un attentato “all’essenza stessa della Convenzione”: uno Stato parte del Consiglio d’Europa non può ammettere la strumentalizzazione dell’individuo al fine di perseguire un obiettivo superiore, sia esso governativo, giudiziario o punitivo: nessuno può essere ridotto a mero mezzo nelle mani del carnefice, degradato a “nuda vita biologica”, a “non-persona” inerme di fronte all’arbitrio di chi esercita nei suoi confronti un potere illimitato e incontrollato. Per questa ragione la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha costantemente qualificato il principio come assoluto, ossia non passibile di eccezioni, né derogabile in caso di guerra o altra pubblica emergenza. Anche nelle circostanze più difficili, quali la lotta al terrorismo e il contrasto della criminalità organizzata, e indipendentemente dalla riprovevolezza delle condotte della vittima, la Convenzione vieta in qualsiasi circostanza la riduzione dell’individuo a mera res. Invero, l’intangibilità del diritto è ricavabile non tanto dall’enunciato letterale di cui all’art. 3 CEDU, quanto piuttosto dai lavori preparatori e dal disposto dell’art. 15 co. 2 CEDU. Si tratta di una qualificazione conforme alla pressoché unanime dottrina e giurisprudenza internazionale: il divieto di tortura viene infatti considerato norma consuetudinaria appartenente al cd ius cogens, rientrando tra quei principi imperativi ispirati a valori ritenuti fondamentali e universali. Del resto, sono gli stessi organi di Strasburgo ad aver considerato fin dagli anni sessanta il mancato rispetto dell’art. 3 CEDU “non la semplice violazione di un principio giuridico che trova origine in un’elaborazione pattizia convenzionale, ma una vera e propria lesione apportata all’assetto dell’ordine pubblico europeo”. Nonostante l’assenza di una (vera e propria) gerarchia delle posizioni soggettive convenzionalmente tutelate, la collocazione sistematica del divieto – che viene trattato per secondo immediatamente dopo il diritto alla vita – conferma il suo speciale significato. Non stupisce, dunque, come anche le ultime sentenze della Corte Edu – in apertura al merito del ricorso – ribadiscano il valore di questa disposizione congiuntamente al suo carattere assoluto e inderogabile. La primaria importanza dell’art. 3 nel sistema CEDU – lungi dall’essere un dato valoriale meramente teorico – presenta precipitati applicativi di notevole rilievo. A titolo esemplificativo si pensi, in primis, alla tecnica di protezione cd par ricochet elaborata dalla giurisprudenza di Strasburgo proprio con riguardo al divieto in analisi; in secondo luogo, alla limitata applicazione della cd dottrina del margine di apprezzamento da parte del giudice interno; in terzo luogo, all’interpretazione più flessibile e meno restrittiva della regola del previo esaurimento dei ricorsi interni a favore del ricorrente che lamenti di essere stato maltrattato (art. 35 CEDU); in quarto luogo, al rigore che contraddistingue lo scrutinio circa l’effettività del ricorso davanti a un’istanza nazionale per far valere violazioni di questo tipo (art. 13 CEDU); in quinto luogo, all’estensione della nozione di “vittima” di mistreatment (art. 34 CEDU); da ultimo – in materia di standard probatorio – alla presunzione di responsabilità che grava sullo Stato quando la libertà personale del ricorrente è limitata. L’esigenza di proteggere ad ampio spettro la dignità di ogni essere umano, “l’essenza stessa della Convenzione”, ha portato il legislatore europeo a non adottare una nozione specifica di tortura, conformemente al disposto dall’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: un’eventuale elencazione di singole ipotesi avrebbe ristretto eccessivamente il suo perimetro applicativo . Si è preferito, pertanto, lasciare alla prassi giurisprudenziale tanto l’individuazione dei confini della fattispecie, quanto la costante attualizzazione della norma alle evoluzioni sociali. Si è creata così una nozione a geometrie variabili in grado di adattarsi alle “condizioni di vita attuali” di volta in volta prese in considerazione: in questo modo, condotte che oggi non sono vietate dall’art. 3 potrebbero esserlo in futuro e, analogamente, ciò che viene classificato al momento come trattamento degradante o inumano – in seguito all’avanzamento nella protezione dei diritti dell’uomo e all’affermazione di standard più elevati – potrà essere definito “tortura”. Con riferimento a quest’ultima ipotesi si può ricordare come la giurisprudenza di Strasburgo in materia di extraordinary renditions si sia discostata dall’interpretazione alquanto restrittiva dell’art. 3 operata dalla Corte Edu nel caso Irlanda c. Regno Unito. Nel 1978 prevalse una visione della “tortura” come atto brutale e puramente fisico: le cinque tecniche di privazione sensoriale adottate dalle forze dell’ordine inglesi vennero considerate come trattamenti “inumani e degradanti” fondamentalmente perché non si trattava di “supplizi estremi” capaci di lasciare tracce visibili sul corpo delle vittime. Viceversa, oggi non si dubita che essa possa essere intesa anche sotto un profilo meramente psicologico laddove superi la soglia di gravità sua propria: la Corte Edu, infatti, non ha esitato a definire in questi termini il programma di “consegna straordinaria” predisposto dal Dipartimento di Difesa americano dopo l’undici settembre attraverso il quale è Stato posto in essere un vero e proprio “outsourcing della tortura”. Le sparizioni forzate dei “sospetti terroristi” sulle rotte del cd global spider web, aventi come destinazione finale i black sites gestiti dalla CIA sul territorio di “stati amici”, erano finalizzate all’ottenimento di informazioni attraverso l’utilizzo di cd tecniche sofisticate di interrogatorio, del tutto simili rispetto a quelle adoperate dall’intelligence inglese durante gli anni settanta. È quindi verosimile pensare che oggi le violenze perpetrate dagli agenti inglesi verrebbero ricondotte nella nozione di “tortura” . Con riguardo al primo caso, non può invece dimenticarsi l’evoluzione ermeneutica che ha caratterizzato l’art. 3 CEDU nelle fattispecie di cd police brutality. Appare assai innovativa sul punto la sentenza con cui la Grande Camera ha statuito che uno schiaffo, anche se isolato, inferto al volto da parte di un rappresentante delle forze dell’ordine nei confronti di un individuo soggetto al suo controllo, possa costituire un grave attacco alla dignità personale, tanto da essere considerato un trattamento “degradante” ai sensi della Convenzione. Si tratta di una pronuncia che amplia notevolmente l’ambito applicativo del divieto in analisi, determinando un importante innalzamento di tutela delle posizioni soggettive protette. Allo stesso modo, non può essere dimenticata sotto questo profilo la giurisprudenza in materia di condizioni della detenzione: se in passato l’esiguità dello spazio a disposizione del detenuto non era considerata di per sé sufficiente a superare la soglia minima di gravità, a partire dal 2009 la Corte Edu ha ritenuto quel dato idoneo ad integrare una violazione dell’art. 3. È quindi solo attraverso l’analisi della giurisprudenza più recente che è possibile tracciare i confini – naturalmente precari – del concetto di tortura convenzionale.
Guttae Legis
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