La libertà di sciopero dopo gli interventi della giurisprudenza costituzionale

Gli artt. 502 e ss. del codice penale sono apparsi per molto tempo in grande contraddizione con l’art. 40 della Costituzione. La Corte costituzionale tuttavia, ha abrogato integralmente solo l’art. 502, riguardante la serrata e lo sciopero per fini contrattuali, dichiarandolo contrario non solo all’art. 40 Cost., ma anche al principio di libertà sindacale dell’art. 39 Cost, affermando che esso costituisce una norma che “era stata ideata e imposta a tutela di un sistema che negava la libertà sindacale”. In questo modo la Corte evidenziò lo stretto legame tra gli artt. 39 e 40 dichiarando che “sebbene enunciati in due distinte norme, il principio della libertà di sciopero e il principio della libertà sindacale non possono non considerarsi logicamente congiunti (…) e pertanto il significato dell’art. 39 non può essere circoscritto entro i limiti angusti di una dichiarazione di mera libertà organizzativa, mentre, invece, nello spirito delle sue disposizioni e nel collegamento con l’art. 40 esso si presenta come affermazione integrale della libertà di azione sindacale” . Le altre norme penali invece non furono dichiarate interamente incostituzionali dalla Corte. Inizialmente, per una parte della dottrina, lo sciopero per fini politici viene ritenuto illegittimo, poiché l’interesse degli scioperanti non è considerato economico-professionale e la rivendicazione messa in atto non è nella disponibilità del datore di lavoro . Quindi l’art. 503 c.p., che stabilisce che il fine politico dello sciopero è reato, e l’art. 504 c.p., che qualifica come reato lo sciopero “con lo scopo di costringere l’Autorità a dare o ad omettere un provvedimento, ovvero con lo scopo di influire sulle deliberazioni della stessa” furono considerati compatibili con l’art. 40 Cost. Successivamente un’altra parte della dottrina sostenne che fosse necessario distinguere tra sciopero meramente politico e sciopero economico-politico. Entrambi hanno come destinatario il potere politico, ma mentre il primo mira a ottenere determinati provvedimenti relativi a specifici problemi politici, il secondo è diretto a ottenere o a impedire determinati interventi di carattere socio-economico da parte dell’autorità pubblica. Questo orientamento è stato condiviso anche dalla Corte costituzionale, la quale affermò che rientrano nell’art. 40 Cost.. anche gli scioperi proclamati “in funzione di tutte le rivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori che trovano disciplina nelle norme racchiuse sotto il titolo III della parte prima della Costituzione”. Questo significa che lo sciopero politico-economico è un diritto, poiché nonostante si caratterizzi in una pressione nei confronti del potere politico, mira a tutelare un interesse economico. Rientrano in questa nozione per esempio gli scioperi per le riforme dei trasporti, della sanità, delle pensioni, del fisco ecc. La Corte ha inoltre precisato che lo sciopero meramente politico non è comunque un reato. Infatti essa abrogò quasi interamente l’art. 503 c.p., evidenziando che la repressione penale dello sciopero era giustificata dal fatto che, nel fascismo, era previsto un regime repressivo di ogni libertà, mentre nella Costituzione sono previsti principi di libertà. Questo implica che nonostante lo sciopero politico, non si debba riconoscere come un diritto, resta comunque una libertà, stabilendo che esso “non può essere penalmente compresso se non a tutela ultima di interessi che abbiano rilievo costituzionale”. La Corte, tuttavia, ritiene costituzionalmente legittima la parte della norma in questione che prevede sanzioni penali nel caso in cui lo sciopero sia diretto “a sovvertire l’ordinamento costituzionale”, oppure quando, “oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumento atto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare” . La Corte successivamente applicò la medesima soluzione per quanto riguarda l’art. 504 c.p. Anche l’articolo successivo fu considerato incostituzionale. Esso stabiliva che era reato penale lo sciopero di solidarietà, cioè quello che si verifica quando alcuni lavoratori esercitano lo sciopero, non per rivendicazioni inerenti al proprio rapporto di lavoro, ma per appoggiare azioni collettive già intraprese da altri lavoratori. La Corte ha affermato che lo sciopero di solidarietà “non può non trovare giustificazione, ove sia accertata l’affinità delle esigenze che motivano l’agitazione (…), tale da far fondatamente ritenere che, senza l’associazione di tutti in uno sforzo comune, esse rischino di rimanere soddisfatte”. Questo implica che lo sciopero di solidarietà rimane reato penale solo quando non sussista una comunanza di interessi, la cui valutazione è demandata al giudice di merito. Tuttavia si è osservato che questa valutazione contrasta con il principio costituzionale di autodeterminazione dell’interesse collettivo, secondo il quale la valutazione dell’interesse tale da giustificare lo sciopero deve essere effettuata dal gruppo, il quale nel caso di sciopero di solidarietà dovrà valutare il collegamento di interessi . L’art. 505 c.p. inoltre riteneva reato penale anche lo sciopero di protesta, il quale si verifica quando i lavoratori scioperano contro il mancato rispetto della regolamentazione esistente o contro comportamenti assunti dal datore di lavoro nei confronti di un singolo o più prestatori diversi da quelli scioperanti. Per esempio è il caso in cui si protesti contro l’inadempimento del datore di lavoro agli obblighi di sicurezza o contro un provvedimento di licenziamento considerato illegittimo di un rappresentante sindacale. La Corte costituzionale, nella medesima sentenza in cui ha dichiarato l’illegittima della disposizione che inseriva lo sciopero di solidarietà tra i reati penali ha, anche in questo caso, affermato che la legittimità dello sciopero di protesta richiede la comunanza di interessi. Inoltre l’astensione deve considerarsi legittima anche se effettuata nei confronti di datori di lavoro diversi da quelli che hanno messo in atto i comportamenti contestati, considerando che i primi possono influire sulle scelte dei secondi.

​Guttae Legis

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