(Adnkronos) – "Vennero a prendermi a scuola e trovai a casa i colleghi e i compagni di papà. Mi ritrovai adulto di colpo: sapevo che da quel momento mi sarei dovuto occupare io di mia madre e mia sorella". Per Marco Intravaia, figlio di Domenico, il vicebrigadiere originario di Monreale (Palermo) ucciso nella strage di Nassiriya, a distanza di 20 anni il ricordo di quella giornata resta "indelebile". "Ero a scuola, al liceo – racconta all'Adnkronos -, e alla mia compagna di banco arrivò un messaggio che la informava di un attentato al contingente italiano. Chiamai casa molto preoccupato, non mi rispose mia madre, ma un parente e mi resi conto subito di quello che era accaduto. In un primo momento era come vivere la vita di un altro, ma ho dovuto realizzare in fretta". Da ragazzo spensierato ad adulto. "Rialzarmi non è stato facile e la mancanza di mio padre era ed è un vuoto incolmabile – dice -. Ho dovuto affrontare da solo le tappe importanti della mia vita, sono diventato due volte padre e continuo a essere guidato dal suo esempio". L'esempio di un "papà allegro, affettuoso e disponibile" e di un uomo che "amava il suo lavoro, la divisa e servire il suo Paese, con umiltà e senso del dovere". Dopo la tragedia Marco Intravaia, oggi parlamentare di FdI all'Assemblea regionale siciliana, pensò di arruolarsi. A fermarlo il pensiero della madre e della sorella. "Non ho voluto lasciarle da sole". Per "servire la patria", però, ha scelto un'altra strada. "Ho capito presto che si può farlo in tanti modi, io lo faccio attraverso la politica intesa come servizio, come attività seria e concreta messa a disposizione della collettività. Una politica che incarna gli ideali e i valori per i quali mio padre ha sacrificato la vita". Lui, comunque, si sente "parte della grande famiglia dell’Arma". "Conservo dentro di me la frase del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: 'Gli alamari sono cuciti sulla pelle' e così me li sento io". Da allora i momenti "difficili e dolorosi" sono stati tanti. "Non soltanto legati alla mia crescita personale", puntualizza. Perché per Marco Intravaia è una "ferita aperta" il mancato conferimento della medaglia d’oro al valore militare alla memoria per 17 militari italiani, appartenenti all’Arma e all’Esercito che facevano parte della missione 'Antica Babilonia'. "Tutti erano a conoscenza dei rischi che correvano – dice -, ma sono rimasti sul posto, per tenere alti i valori di pace, della bandiera e della Repubblica Italiana tra quel popolo sfortunato e distrutto dalla guerra". Oggi come ieri. L'instabilità internazionale e i fronti di guerra aperti riaprono una ferita. "Ogniqualvolta un servitore dello Stato muore in una missione all’estero per me è un dolore che si rinnova – ammette -. So che tutte le missioni italiane internazionali sono da sostegno alle popolazioni in difficoltà, anche sul piano materiale e logistico e questo mi rende orgoglioso. Provo, però, anche tanta rabbia davanti ai fallimenti, come in Afghanistan, oppure quando devo prendere atto che, nonostante gli sforzi dei nostri uomini e del nostro Paese, continuano a dominare le guerre e le persecuzioni e a farne le spese maggiori sono soprattutto donne e bambini, come stiamo tragicamente assistendo in questi giorni". Oggi a distanza di due decenni da quella strage non nasconde la sua amarezza. "In occasione del ventennale – ammette – ci saremmo aspettati un evento diverso e più connotativo, invece sta passando quasi in sordina, rendendo ancora più dolorosa questa data. La base 'Maestrale' è stata la più grande strage di militari italiani dal dopoguerra e ci saremmo aspettati maggiore sensibilità dallo Stato", dice. Insieme agli altri familiari delle vittime lancia un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al premier Giorgia Meloni e al ministro della Difesa Guido Crosetto affinché sia concessa l’onorificenza. C'è poi un altro "nervo scoperto": la vicenda giudiziaria. "Ancora non è stata fatta luce sulle responsabilità dei vertici militari che ignorarono le informative dei servizi segreti rispetto ai rischi della missione – sottolinea -. L’allora generale dell’Esercito Stano è stato condannato in Cassazione per non avere attivato tutte le procedure di sicurezza che avrebbero ridotto l’entità dell'eccidio. Noi familiari, ma anche l’intero Paese, abbiamo bisogno di verità sulla più grande strage di militari del dopoguerra. Morti per assicurare sicurezza all’Occidente, per la pace e la convivenza civile internazionale". —cronacawebinfo@adnkronos.com (Web Info)
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